Se io fossi un produttore di vino italiano che si rivolge, come la maggior parte di loro, in primis al mercato interno, poi ai Paesi europei più recettivi, ma anche oltreoceano agli States, di queste continue ricerche e focus sui Millennials dai quali sembrano dipendere le sorti del vino nel mondo, ne avrei in sincerità le palle piene. Abbiamo capito chi sono, cosa cercano e come si comportano nel momento dell’acquisto, che negli US è importante la notorietà del brand e il pack fa la differenza, mentre in Italia cercano la varietà e della bottiglia o della bella etichetta gliene importa assai meno, che in Cina se non hai un nome a loro intellegibile sei fuori, invece il prezzo è la leva a cui tutti sono più o meno sensibili. Bene, quindi? In America mi presento figo con un look all’avanguardia, in Italia per differenziarmi vado di storytelling (altro tormentone) e comincio a raccontare la rava e la fava, per i mercati asiatici investo sul naming? Con un occhio di riguardo al recupero di reddività che mi consenta di contenere i costi ed essere sempre competitivo nel prezzo? Investendo possibilmente e nello stesso tempo in vigna e in cantina per essere sempre più bio, più dinamico, più natural, più green? Girando il mondo nei road shows, bottiglie alla mano, per non perdere l’occasione di conoscere l’importatore giusto e portare il verbo in terra di…di chi? Se io fossi un produttore di vino … e per sfortuna non lo sono.